Solidi fra i pilastri della grande tradizione narrativa siciliana, in tutte le sue declinazioni "espressioniste" (Pizzuto), luttuose (Bufalino), disvelanti (Pirandello), antieroiche e "realiste" (Verga, e poi D'Arrigo), ma come in verità poggiati su un franoso sottosuolo dostoevskijano, i tre folgoranti racconti di Luisa Stella offrono caratteristiche formali e sostanziali di rara potenza.
Ritratte a sbalzo in dialoghi densi, taglienti, veloci, o nei monologhi-flusso di un "rimuginato" in piena, le bellissime incurabili di Stella si muovono nel sogno febbricitante di una malattia senza remissione. La loro "bellezza" sta tutta nel coraggio che hanno di iniziare a parlare sul limite estremo, nel punto di massima tensione, da quel buco nero in cui ogni cosa, all'interno di questo mondo allucinato, entra in crisi e si dissolve. E ognuna di loro si arresterà, come una macchina disattivata, dinanzi alla domanda che c'incalza tutti: è questa la morte?
Così, quello che parrebbe un mondo di malattia si rivela, nelle parole delle incurabili, opportunità di salute per un pensiero che non può sottrarsi al compito di pensare la propria fine. Perché, come c'insegnano queste incurabili, tutte ugualmente orfane di vita (dalla selvatica Caterina amante dell'informe di Io sono la selvatichezza, alla tanato-teorica signora Tule de Il medico degli incurabili), se vivere è ammalarsi, la "malattia" è cura.